Tiziana Cera Rosco - Il ritorno della Sposa Uccello

E’ da tempo che seguo il lavoro prima poetico e poi artistico/mistico/estetico di Tiziana Cera Rosco. Premetto che non è facile parlare di lei, tale la complessità del suo lavoro e immense sono le voragini di visioni che apre. Ecco cosa scrivevo di lei qualche tempo fa: 

“per dare l’idea delle tue capacità artistiche, poetiche e performative si dovrebbero citare troppi nomi GIGANTI dell’arte mondiale…ma il tuo respiro selvaggio e primordiale non lo accetterebbe, la tua matrice sperimentale è così piena di poesia da far impallidire troppi artisti blasonati. In una parola Tiziana tu sei vera e sei VIVA… In effetti la tua produzione ha anche qualcosa di sacro e di musicale ma io non ho le parole giuste per dirlo, c’è sempre qualcosa di profondo e di ritmato che scandisce il tempo e gli orizzonti delle tue creazioni…” 

Tiziana Cera Rosco è un’artista nomade, sempre in viaggio(sia reale che metaforico) sull’asse Estetico -Esistenziale BARREA-MILANO-PIACENZA-BERLINO- ISLANDA fa pensare in parte a certe performance di Marina Abramovic ma con un elemento selvaggio e surreale sconosciuti alla Abramovic, in parte alle combustioni di Burri e al senso del doppio e della crudeltà di Artaud, con una selvaggeria, sensuale ed elegante tutta propria e un uso del corpo messo a nudo in contaminazione con manichini, calchi, lunghe gonne e taccuini insanguinati, mai volgare ma denso di rimandi simbolici e mitologici.

Iniziamo a dire che la sua matrice visionaria ha ampi percorsi e orizzonti ancora da scoprire, e la sua forte personalità è il risultato di decenni di ossatura linguistico/poetica ( ricordiamo almeno le sue pubblicazioni IL DIO MACEDONE, e IL COMPITO brillantemente prefato da Milo De Angelis) e propiziatrice di un orto estetico in piena gemmazione onirico-fotografica, simbolica, e performativa.

Tale è la vastità ed eterogeneità dei suoi interessi che si può e si deve parlare di Costellazione Estetica, in cui lei sa far convivere mondi e macrocosmi diversissimi tra loro come la Action Poetry, L’Installazione Antropologica, la Fotografia visionaria, la Scultura mito-calcografica, La Performance Ambientale. E si legga qui un suo appunto poetico esemplare, tratto da una poesia inedita:

la casa è sollevata da una parola isolante
mentre lacero la carta con la punta
una polvere stellare impedisce di vedere le galassie
irrora il mio corpo in espansione chissà dove.
è solo l’oscillazione di un momento verso l’eterno, mi dico…”

Ogni sua opera è in relazione con il mondo e con il respiro del mondo, quindi in primis è un’operazione etica, che diventa ecologia esistenziale poi e infine dono estetico all’umanità. Il suo lavoro è un entrare dentro le vene del mondo, sentirne il calco, abitarne le cattedrali naturali, auscultare i silenzi, seminare grazia e creatività come in una danza sciamanica che ci ipnotizza.

Il suo dire e il suo fare scorre tra abluzioni metafisiche e sciami di quotidianità, cercando la nudità dell’essere e l’empatia estetica, in uno scarto esemplare di eticità e un deposito vibrante d’intuizioni binarie, polisemiche ed aptiche. La sua vita è un calco di emozioni a cui appartenere, un corpo d’abitare, un respiro da respirare insieme. Una volta entrarti nella sua spirale emozionale è impossibile uscirne se non vivificati e rigenerati.

Tiziana Cera Rosco, sta portando avanti da tempo un progetto performativo/fotografico denominato “La Sposa Uccello”. Giocando con la tradizione Surrealista di Max Ernst in vari contesti urbani e naturali sino ai deserti di ghiaccio dell’Islanda di questa estate, o contestualizzando in performance artistico/fotografiche in sinergia con altri artisti.

Una Sposa Uccello simbolica e surreale che vuole essere sposa e madre, uomo e donna, antagonista e regale, capace di un volo e un amore selvatico, di gesti rapaci e folli e scrutare l’anima del mondo con una grazia che solo la ferocia dell’amore conosce, che vive in una crepa stellare da cui vuole staccarsi. Una Sposa Uccello che cammina tra i ghiacciai neri d’Islanda e scruta i silenzi di una pietra, che cerca i linguaggi dell’aria e delle zolle di cenere, che si aggira tra i pescherecci arenati nel ghiaccio e dispiega le sue ali neri sul corpo bianco immacolato della poesia, che fa l’amore con Celan e Rilke e plasma nella creta Veneri di Willendorf,  un Rebis primordiale e selvaggio spacca l’io erotico in ascolto del sé profondo…

C’è una Sposa Uccello, che plana sulle ferite da curare, portando con sé mandrie di visioni da accudire e in effetti tutta la sua vita è un compito pre-estetico e una correzione estatica, una zolla cosmica da coltivare con cura.

E qui segue una mia visione poetica di questo lavoro in divenire in cui spesso si autoritrae e spesso si lascia fotografare da altri artisti:

IL RITORNO DELLA SPOSA UCCELLO

Per Tiziana Cera Rosco

E la sposa uccello arrivò sino al cuore dei ghiacciai neri

per trovare il suo nido d’infinito

ma le ali le sembrarono troppo piccole

per baciare le crepe del silenzio.

Allora si rimise in viaggio tra le zolle di ghiaccio

per trovare fondali sconosciuti e pezzi di cielo incollati sulle acque…

 

Lasciò le sue impronte visionarie sulla spiaggia nera

e arrivò ai confini del deserto di ghiaccio

sino a trovare tra le viscere della terra

una preghiera d’acqua e covò sette sogni

e volò nei sette cieli per accarezzare i seni del vento.

 

Poi, placata, appagata, indistinta e sola

scrutò a lungo l’orizzonte e la notte dei lividi d’amore

spiccò il volo all’alba dal tetto del faro bianco

si sedette ai bordi della casa di legno

a riflettere sui mondi dell’invisibile ei segreti del vento

e scrisse tutto sul suo taccuino d ‘Islanda.

 

Si dondolò a lungo tra il delta del fiume

e la bianca strada sterrata

poi ricominciò a scrutare i suoi abissi di dolore

il suo cuore visionario appeso al respiro

della terra madre e all’eden di chi sa volare alto

anche quando le catene del dolore

ti trattengono ancorata a terra

con l’anima sanguinante

e il corpo in balia della mattanza delle correnti

di visione, desiderio e disamore.

 

L’artista porta con sé il dono dell’immaginazione e la fascinazione dell’azione poetica e solo lei può vedere in un sottobosco una Cattedrale di Alberi e dopo la mattanza di fuoco e senso, ci mette dentro la grazia della redenzione, suona i tamburi della memoria e della solidarietà salvifica. Dopo il dissanguamento Esistenziale e Ambientale sa che solo un nuovo battesimo di meteorologia sentimentale ci salva, ci unisce , ci da speranza nel futuro.

L’artista sa che alla combustione dei luoghi segue la combustione dell’anima ma l’artista, da demiurgo dannato cova sotto la cenere le uova e le ossa del domani, ripristina nelle vene la forza del vento e il disorientamento della grazia e il corpo diventa telaio di un orizzonte estetico, e l’acqua il teatro di una passerella mistica onirica, rapace.

Vedete cosa scriveva Tiziana a proposito del progetto VER SACRUM

“Il 19 agosto è iniziato il rogo.
Ettari e ettari di danni. Danni vuol dire alberi e terra bruciata. Ora il l’Abruzzo me lo sono sposato. Ci sono nata ( mi padre è di Barrea ), in parte cresciuta ma l’ho sposato a fine gennaio del 2017. E l’ho sposato in un momento di grave difficoltà, quando vuoi condividere qualcosa con qualcuno, unirti.. Quindi la difficoltà fa parte di questo legame che è un legame ancestrale. Parlo di me perché alcuni di voi non li conosco e non mi conoscono e quindi non possono sapere che ho iniziato a performare nel bosco sul lago di Barrea una Preghiera che si chiama Patientia ed una preghiera legata al luogo, ai luoghi e RossoSangro che è l’unione che vi dicevo prima ( ma prometto di aggiungere informazioni cosi che possiate capire perché ho a cuore questo posto). Detto questo il motivo del gruppo è il seguente. vorrei cominciare a costruire, perché non ho altro potere che questa povertà d’azione in tempo reale ma non in tempo storico, un Cimitero che vorrei chiamare Ver Sacrum ( scusate se dico “io” ma questo “io” esiste solo perche ora tocca a me iniziare. Spero in un NOI. ) Immagino che si possano prendere i tronchi da quello che è rimasto dei boschi arsi, i resti degli alberi bruciati ( ovviamente senza disturbare nessuno)e portare questi tronchi morti nel posto più vivo che conosco in uno slargo al lago di Barrea. Immagino pezzi di tronchi neri come lapidi, un cimitero, un monumento alla memoria.”

Rinasce il respiro animale, il desiderio della zampata rapace, del volo onirico della Sposa Uccello, come se una stella dell’imperfezione e dell’impuro vivere, illuminasse la costola ferita della preda(la vita), che continua a rivelare ossari Aztechi e bare d’acqua e rinasce il senso civico di chi ama e vuole difendere il territorio della memoria e del sogno.

Chi ha la forza di distruggere un’opera? L’artista ovviamente che crea la sua stessa distruzione, che mummifica la sua immagine e poi la distrugge come ha avuto il coraggio di fare Tiziana Cera Rosco con la sua opera Pentasenso di cui scrissi:

“”Pentasenso” non è un io moltiplicato cinque volte, è un Sé che contiene altri Sé , un Io molteplice e plurale. Ogni garza un abbraccio, ogni sfilacciamento un ricordo, gli occhi chiusi a proteggere l’intimità del mondo.” E a quest’opera distrutta(e per questo creata due volte, la prima nel calco ripetuto, la seconda nel gesto iconoclasta) dedicai questi versi:

DISTRUGGERE UN’OPERA
per Tiziana Cera Rosco
Solo l’artista creativo

Ha la forza di distruggere la sua opera

Sacralizza l’azione e umanizza il gesto

Distrugge l’opera per auscultare

Le sue implosioni estetiche

L’artista creativo ascolta solo la sua visione interiore

E ne fa un imperativo estetico

Un nido di caos creativo

Perché la sua testa è un nido di visioni

Distrugge l’opera ma vede l’invisibile.

 

Non è un caso che nelle sue opere torni spesso l’elemento del fuoco e quello del sangue, essenziali elementi di catarsi e rigenerazione, di suture e di simulacri e rivelano l’amore per grandi artisti come Artaud e Burri. E’ esemplare un suo scritto del 2015.

“ IL FUOCO… la prima volta che mi sono incendiata è stato un incidente. le mie mani erano coperte dal poliuretano diventato liquido con l’incandescenza, cosa che mi aveva impressionato con la sua bellezza devastante tanto che, per qualche pericolosissimo secondo, sono rimasta immobile a guardare il mio involucro di gesso, con le mie fattezze, il seno, la curvatura del collo e il viso, colare fuoco e ardendo completamente verso l’alto. un eccesso di liberazione inaspettata. da quell’episodio dismisi per molto tempo di farmi calchi ( cosa che avevo iniziato in maniera compulsiva, riuscendo a farmene due o tre al giorno, come dovessi sbrigare l’urgenza più profonda fino ad allora)e il lavoro riprese il suo biancore. il simulacro di quell’episodio non l’ho mai usato per fare le statue. sta con ne nel nuovo studio a faccia in giu. ogni volta che entro nella legnaia, dove li lavoro ora, è lì a ricordarmi cosa vuol dire bruciare forme, prendere vita e che nascere è abbandonare un morto. il mio amato Artaud, che accompagna tutto questo svolgersi del lavoro.
Questo sarebbe solo un incidente di percorso venuto a depotenziare l’escursione del limite se non fosse che ogni limite è solo l’altro versante di un accesso, e questo non bisogna dimenticarlo. così ho imparato a bruciare forme e piano piano a contenere il fuoco come si contiene un suicidio sempre pronto a divampare nella morte naturale.
man mano non solo brucio forme ( le mie, i miei doppi, le mie fattezze intonacate) ma le consumo fino ad una penultima cosa. che ancora non conosco la cosmografia di un corpo antico col quale fummo ingenui nel crederlo protetto. e che è difficile da finire ( uccidere?) nel colloquio che sempre si ha con il lavoro e col mondo, difficile da polverizzare. Inizia così, dopo Ninive, l’altra mia città CARTAGINE che nasce bianca, vuota, arsa, un passaggio di forme, un monito di distruzione fino alla cenere.
Così Brucia Cartagine”
bende, gesso, incendio, simulacro.
Piacenza, aprile 2015
i resti saranno appesi fuori dalle porte.

 

L’artista è semplicemente questo essere presente, un ponte tra le cose, sopra argini di dolore e di solitudine che azzanna l’anima a ogni risveglio. L’artista vuole essere giaciglio, lago, orizzonte, una sponda nascosta dove nascono comete, una garza che vuole trattenere il sangue, tra i calchi dell’essere, tra i volti bianchi di replicanti di vuoto, come un Dio morente che vuole essere vivo.

L’artista è un Dio presente che vuole rifare il mondo, irradiare di sé gli scudi del tempo, riempire di parole nuove i pozzi della ragione, regalare una nota musicale al silenzio dell’Universo.

La Sposa uccello, vuole spalancare il nulla, con un gesto, una presenza, un grido, un richiamo di artigli doveroso e poi volare alto sopra i boschi, cuori d’acqua e cime segrete. E questo fa la Sposa Uccello, dopo aver ritrovato un vuoto, un nome, una memoria inviolabile, trasforma il suo alfabeto di sensi in carne sanguinante e apparecchia un banchetto teologico per anime sacre, pure, pronte all’ascensione di sé nei peripli della visione.

A questo punto le parole diventano inutili avanzi di scrittura che cancelliamo, correggiamo, accumuliamo in taccuini di cenere e inchiostro mentre la vita ci danza accanto. Scrivere diventa solo un esercizio di linee cerebrali, un dispositivo dinamitardo delle proprie credenziali. Si esplode all’improvviso ci illuminiamo, si trapassa da un labirinto di sangue a una culla di vuoto, si espiano colpe altrui solo per non morire nel disonore. E’ come passare un compasso di luce sull’Eternità e scrivere col sangue la propria e la nostra storia futura, cosmopolita, polisemica che vede e sente l’invisibile. Lei è già un’opera d’arte totale( ma forse non lo sa) e questo le permette di regalarci altri graffi comosmoteandrici come una stella danzante, che vive in stato di latenza, aperta a ogni futuro possibile e regalarci altre opere, visioni, foto sculture che ci lasciano dentro un seme d’incanto, un respiro di grazia e sangue… 

IL SANGUE
per Tiziana Cera Rosco
Il sangue purifica

Il sangue leva il dolore

Il sangue rinnova

Il corpo espelle linfa insanguinata

Mentre l’eros attende il rinnovo della grazia

Lo sguardo che uccide/Il rosso che acceca

Il corpo appeso all’albero della rigenerazione

Disseta le sue radici

Selvagge e pure

Il volto non ha nome

La grazia non ha respiro

La vita non attende

E non dite di non sapere.
Donato Di Poce

Milano, 17/10/2017